Venezia 81, Amelio e l'eco della guerra: "Se bastasse un film avremmo risolto tutto"

"Se bastasse un film avremmo risolto tutto. Purtroppo i film sono cose piccole rispetto agli interessi del potere. Perché le guerre, sia quelle passate che attuali, nascono dai potenti e dalla bramosia di conquista". Così all'Adnkronos, Gianni Amelio racconta il suo film 'Campo di Battaglia', in concorso all'81esima edizione della Mostra del Cinema. Un film che, pur ambientato nell'ultimo anno della Prima Guerra Mondiale, risuona con forza nel presente. Il regista non si fa illusioni sul potere del cinema di cambiare il mondo ma sceglie comunque di raccontare e dare voce a chi non ha avuto la possibilità di farlo.  "La Prima Guerra Mondiale - sottolinea Amelio - fu una guerra quasi fatta 'a tavolino' dove poi l'Italia si è seduta insieme agli alleati ma è stata combattuta e vinta con il sacrificio di centinaia di migliaia di innocenti, civili e militari. Erano ragazzi di 19 e 20 anni, che non avevano addestramento e che per la prima volta si trovavano a combattere, corpo a corpo, con in mano un fucile". 'Campo di Battaglia' non ci mostra le trincee, le cariche al fronte. La guerra che si vede nel film, spiega Amelio, "è raccontata all'interno di un ospedale, dove arrivano centinaia di feriti ogni giorno e ci sono due medici, due amici, che hanno due idee diverse di come guarirli: curare per far ritornare i soldati a casa o per rimandarli a combattere?". Il film, dice il regista, "tocca dei sentimenti che vanno al di là del tempo. Toccano cose che ci riguardano e pensieri che abbiamo fatto tante volte e domande alle quali forse non sappiamo dare ancora una risposta". Sul perché il cinema italiano scelga spesso di raccontare il passato e non il presente Amelio risponde: "Forse dipende dal fatto che ho un'età, non penso al passato con nostalgia, ma, avendolo vissuto, probabilmente lo conosco meglio, e quindi scelgo di parlare di cose che mi appartengono. Non ho fatto la prima guerra mondiale, sono nato durante la seconda guerra mondiale, però, in qualche modo, lo sguardo che si rivolge al passato è sempre rivolto al futuro".  "Per me era importante raccontare una storia dove i personaggi fossero estremamente rigorosi e precisi ma che non dessero la possibilità allo spettatore di capire da che parte stare, chi fa la cosa giusta e chi sbagliata. Questo ci permette di uscire dalla sala e porci la domanda su cosa avremmo fatto noi e questo nel cinema è molto importante", dice all'Adnkronos Alessandro Borghi che nel film interpreta un ufficiale medico che ogni giorno si confronta con un dilemma morale estremo: come comportarsi di fronte alla sofferenza dei soldati che ogni giorno arrivavano dalle trincee. "Quanto è umano levare la vista ad una persona promettendogli la salvezza?", si chiede Borghi.  Secondo l'attore "il contraddittorio che c'è nel film è stata la base di tutti i dettagli e le sfumature dei personaggi". Per l'attore, dunque, la forza del film sta proprio in questa ambiguità e riflette sul suo privato: "Cerco di essere una brava persona, ma commetto errori come tutti. La soggettività delle nostre azioni dipende dal contesto e dalle persone che frequentiamo. L'unica salvezza è interrogarci continuamente su cosa sia giusto fare". In merito alla sua capacità di passare da un dialetto all'altro con naturalezza, Borghi risponde: "Mi dicono banalmente che ho un buon orecchio, anche con la musica: sono intonato e se mi danno degli strumenti dopo una settimana riesco anche a suonare delle cose". I dialetti, racconta Borghi, "fanno parte di una serie di sfide che mi piace affrontare per cercare di dare un'identità molto forte ai personaggi". (dall'inviata Loredana Errico)