La Corte di Giustizia dell'Ue ha confermato la multa di 2,4 miliardi di euro inflitta dalla Commissione Europea a Google per aver abusato della sua posizione dominante, favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti. Il ricorso presentato da Google e Alphabet, informa la Corte, è respinto. Il 27 giugno 2017, ricorda la Corte, la Commissione aveva constatato che, in 13 Paesi dello Spazio economico europeo (See), Google aveva privilegiato, nella ricerca generale, i risultati del proprio comparatore di prodotti, rispetto a quelli dei comparatori di prodotti concorrenti. Google aveva presentato i risultati di ricerca del suo comparatore di prodotti in prima posizione, valorizzandoli, mettendoli all’interno di 'boxes', con informazioni "visive e testuali" attraenti. Per contro, i risultati di ricerca dei comparatori di prodotti concorrenti apparivano soltanto come semplici risultati generici (presentati sotto forma di link blu) ed erano quindi, contrariamente ai risultati del comparatore di prodotti di Google, suscettibili di essere retrocessi da algoritmi di aggiustamento nelle pagine dei risultati generali di Google. La Commissione aveva concluso che Google aveva abusato della propria posizione dominante sul mercato dei servizi di ricerca generale su Internet, nonché su quello dei servizi di ricerca specializzata di prodotti. Le aveva quindi inflitto un’ammenda di 2.424.495.000, per il pagamento della quale Alphabet, socia unica di Google, è stata ritenuta responsabile in solido per un importo 523.518.000 euro. Google e Alphabet hanno contestato la decisione della Commissione davanti al Tribunale dell’Ue. Il 10 novembre 2021 il Tribunale ha, essenzialmente, respinto il ricorso e, in particolare, ha confermato l’ammenda. Per contro, il Tribunale ha ritenuto che non fosse dimostrato che la pratica di Google avesse avuto effetti anticoncorrenziali, anche solo potenziali, sul mercato della ricerca generale. Di conseguenza, i giudici di primo grado avevano annullato la decisione della Commissione, nella parte in cui aveva constatato una violazione del divieto di abuso di posizione dominante anche per il mercato della ricerca generale. Google e Alphabet hanno allora proposto ricorso alla Corte, chiedendo l’annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui ha respinto il loro ricorso, nonché l’annullamento della decisione della Commissione. Con la sua sentenza di oggi, la Corte rigetta l'impugnazione e conferma dunque la sentenza del Tribunale. La Corte ricorda che il diritto dell’Ue sanziona non l’esistenza stessa di una posizione dominante, ma soltanto lo sfruttamento abusivo di quella posizione. In particolare, sono vietati i comportamenti di imprese in posizione dominante che restringano la concorrenza e siano dunque suscettibili di causare un danno alle singole imprese e ai consumatori. Tra questi comportamenti rientrano quelli che, con mezzi diversi dalla concorrenza basata sul merito, ostacolano il mantenimento o lo sviluppo della concorrenza, su un mercato in cui quest'ultima è già indebolita, per via della presenza di una o più imprese in posizione dominante. Per la Corte non si può certo ritenere, in generale, che un’impresa dominante che applichi ai propri prodotti o servizi un trattamento più favorevole di quello accordato a quelli dei suoi concorrenti tenga un comportamento che si discosta dalla concorrenza basata sul merito. I giudici constatano tuttavia che, nel caso specifico, il Tribunale ha effettivamente stabilito che, alla luce delle caratteristiche del mercato e delle circostanze, il comportamento di Google era "discriminatorio" e che non rientrava nell’ambito della concorrenza basata sul merito. "Siamo delusi dalla decisione della Corte. Questa sentenza si riferisce a un insieme di fatti molto specifici. Abbiamo apportato modifiche nel 2017 per conformarci alla decisione della Commissione Europea e il nostro approccio ha funzionato con successo per oltre sette anni, generando miliardi di clic per oltre 800 servizi di comparazione prezzi". Ad affermarlo, interpellato dall'Adnkronos, è un portavoce di Google dopo che la Corte di Giustizia dell'Ue ha confermato la multa. La Corte di Giustizia dell'Ue ha dato quindi ragione alla Dg Concorrenza guidata da Margrethe Vestager sulla vicenda dei 'ruling' fiscali concordati dall'Irlanda con Apple. I giudici di Lussemburgo, informa la Corte, hanno annullato la sentenza del Tribunale dell'Unione che riguardava gli accordi di Dublino con il colosso di Cupertino. La Corte ha deciso in via definitiva sulla controversia, confermando la decisione della Commissione, che risale al 2016: l'Irlanda ha concesso alla multinazionale californiana un aiuto illegale, che è tenuto a recuperare. La sentenza della Corte di Giustizia dell'Ue sui tax ruling concessi dall'Irlanda ad Apple è "una vittoria per la Commissione e per la giustizia fiscale", il commento di Vestager, in conferenza stampa a Bruxelles. "Siamo delusi dalla decisione di oggi, poiché in precedenza la Corte di Giustizia aveva riesaminato i fatti e annullato categoricamente il caso". Ad affermarlo è il gruppo Apple interpellato dall'Adnkronos. "Questo caso - sottolinea Apple - non ha mai riguardato la quantità di tasse che paghiamo, ma il governo a cui siamo tenuti a pagarle. Paghiamo sempre tutte le tasse che dobbiamo ovunque operiamo e non c'è mai stato un accordo speciale. Apple è orgogliosa di essere un motore di crescita e innovazione in Europa e nel mondo e di essere sempre uno dei maggiori contribuenti al mondo". La Commissione europea, rileva ancora Apple, "sta cercando di cambiare retroattivamente le regole, ignorando che, come previsto dal diritto tributario internazionale, il nostro reddito era già soggetto a imposte negli Stati Uniti". Apple, infatti, secondo quanto sostiene il colosso di Cupertino, ha pagato oltre 20 miliardi di dollari di tasse agli Stati Uniti sugli stessi profitti che, secondo la Commissione, avrebbero dovuto essere tassati in Irlanda. I profitti che secondo la Commissione Ue avrebbero dovuto essere tassati in Irlanda, secondo Apple, sono sempre stati soggetti a tassazione negli Stati Uniti. L'Irlanda e gli Stati Uniti, sostiene il gruppo Usa, sono d'accordo su questo punto. Il Tribunale ha ritenuto che le società fossero soggette a tassazione in Irlanda solo sui profitti generati dalle loro attività in Irlanda. Nel decennio oggetto dell'indagine della Commissione, 2003-2014, Apple, secondo il gruppo, ha pagato 577 milioni di dollari di tasse al fisco irlandese - il 12,5% dei profitti generati nel Paese, in linea con le leggi fiscali irlandesi.